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La rete nell’era della disinformazione
| Walter Quattrociocchi | ieri, oggi, domani
Il tema della disinformazione sembra essere l’argomento del momento, tanto che il neologismo post-truth, postverità, si è aggiudicato il titolo di parola dell’anno secondo Oxford Dictionaries. Gli ultimi casi di rilevanza internazionale come la Brexit o le elezioni presidenziali negli Usa con la vittoria di Trump, hanno portato alla ribalta questioni che sono in realtà sempre esistite.
IMT School for dvanced Studies Lucca
Walter Quattrociocchi è
attualmente a capo del
Laboratorio di Scienze
Sociali Computazionali
all'IMT di Lucca. I suoi interessi di ricerca includono
reti dinamiche, scienze cognitive,
algoritmi a grafo e i processi dinamici su reti
complesse. Recentemente la sua ricerca
si è focalizzata sulla diffusione di informazione
e disinformazione e sull'emergere di
narrative collettive nei social media e sulla
loro relazione con l'evoluzione delle opinioni.
Ha al suo attivo oltre 50 pubblicazioni.
La caccia alle streghe o agli untori, infatti, storicamente c’è sempre stata e non è certo stata introdotta da Internet. Il ruolo della rete è determinante tuttavia per la velocità con cui l’informazione si diffonde e per la sua capacità di mettere pesantemente in crisi il sistema tradizionale dell’informazione. Si è passati, infatti, da pochi professionisti che selezionavano gli argomenti di interesse ad una quantità enorme di attori che sono contemporaneamente emittenti e consumatori d’informazione. In questo modo, la filiera dell’informazione è molto più eterogenea ed è diventato molto più facile trovare una fonte o un contenuto che ci aggrada.
Ci troviamo in una sorta di “supermercato dell’informazione”, consumiamo quello che ci piace maggiormente, troviamo le persone che la pensano come noi ed è così che si crea l’echo chamber, ovvero uno spazio definito sul web nel quale le opinioni scambiate, essenzialmente, si confermano le une con le altre. Per esempio, si può trattare di uno spazio di persone che hanno la stessa mentalità e che si scambiano idee politiche simili, oppure una pagina su una teoria cospirazionista. Una volta entrati in questi spazi, gli utenti scambiano informazioni molto simili, in pratica facendosi eco l’un l’altro in maniera non sempre consapevole.
Ci sono due narrazioni a confronto: quella mainstream, ufficiale e quella alternativa, populista e più emotiva. Così come spiegava bene il filosofo Wittgenstein, se descriviamo la realtà attraverso il linguaggio, non può esistere una visione del mondo unica che comprenda tutta la realtà. I nostri studi evidenziano proprio questi meccanismi e come l’interazione tra utenti appartenenti a tipi di narrazione diversi (che siano quella vegana, cattolica, scientista o complottista) diventi distruttiva in quanto, nelle echo chamber, le posizioni radicalizzate non consentono la comunicazione intergruppo. Le persone, abituate a queste casse di risonanza, infatti, sono portate ad imporre le proprie ragioni, non ascoltano quelle degli altri e finiscono per formare comunità fortemente polarizzate. Una volta che la propria posizione è sedimentata, le azioni di debunking, ovvero smontare le argomentazioni contrarie attraverso delle prove o con il factchecking, non fanno altro che rafforzare ulteriormente la propria visione originaria con la motivazione che questa sia la prova dell’esistenza di un complotto.
Di conseguenza, dunque, il motore che alimenta il circolo delle notizie false e delle bufale è da ricercare all’interno di un meccanismo del cervello umano che è il confirmation bias, ovvero il pregiudizio di conferma. Per sua natura, l’uomo tende a ricercare le informazioni più vicine alla propria visione del mondo e credere a queste più che a fonti, magari più ufficiali ma distanti, che affermino una posizione diversa.
Nel prossimo futuro è plausibile che sempre di più i temi di rilevanza nazionale o sociale, quindi anche la comunicazione politica, passino dai social media. Le dinamiche appena descritte favoriscono un uso strumentale delle informazioni e quindi la proliferazione di notizie non verificate. Le bufale, d’altro canto, non sono prerogativa una sola parte politica, come spesso si tende a credere. Nel caso del recente referendum costituzionale in Italia, le notizie non verificate sono circolate tra gli ambienti di entrambi gli schieramenti in campo.
A complicare le cose poi c’è il mercato che si va diffondendo a partire dalle notizie e alla remunerazione in base al numero dei click, che non aiuta a mantenere uno standard elevato nella qualità delle notizie. In questo senso neanche il giornalismo tradizionale è immune dal rischio di ricorrere alla notizia facile e non è esente da colpe nell’abbassamento del livello qualitativo dell’informazione. Per far fronte ad uno scenario che sembra ineluttabile si stanno proponendo soluzioni piuttosto deliranti. La proposta di un sistema che spinga a segnalare la falsità delle notizie, ad esempio, è terribile. Un simile sistema si baserebbe sul criterio della popolarità quante più persone affermano che la notizia non è veritiera tanto più questo viene creduto. Con questo criterio, qualsiasi opinione o argomento controverso troverebbe qualcuno pronto ad ostacolarlo. Si creerebbe una situazione ingestibile che è quella del “paradosso del mentitore”. Anche la possibilità di multare chi diffonde notizie non veritiere è da escludere perché non su tutti i temi c’è la possibilità di verificare i contenuti. Il rischio è quello di arrivare al Ministero della Verità di orwelliana memoria. Che ci possa essere su Internet un controllo sul contenuto delle informazioni credo sia irrealizzabile. Si tratta di un’utopia rispetto al modo con cui funziona la rete e aggiungerei per fortuna, perché sarebbe in contrasto con la natura stessadi Internet, per come è nata e si è mantenuta libera e neutrale fin dalle origini. Non è possibile limitare la libertà di espressione. In questo senso, occorre distinguere i casi in cui c’è un reato o un illecito che invece devono essere puniti.
Ma non si può generalizzare, perché il controllo dell’informazione sulla base di segnalazioni andrebbe a creare un’ulteriore polarizzazione che è la causa stessa della diffusione di false informazioni. Il tentativo in atto dai grandi player, come Facebook o Twitter, di arginare la proliferazione di notizie non verificate non rispecchia un reale interesse dal lato dell’azienda. È piuttosto un modo per pulirsi la coscienza, per rendere più vivibile la piazza virtuale dove le persone si scambiano opinioni. Tuttavia, visto il loro ruolo predominante nel flusso delle informazioni, che ci sia qualcuno, un soggetto terzo, che controlli ciò che queste grandi aziende fanno ritengo che sia più che utile.
Quali soluzioni allora? Il pregiudizio di conferma fa parte del funzionamento del cervello umano, è un meccanismo di difesa innato sul quale non è possibile intervenire per modificarlo. Un ruolo importante può averlo la formazione, in ambito scolastico ad esempio, per sviluppare una maggiore capacità di discernimento sulle informazioni veritiere, una maggiore sensibilità per lo scetticismo, inserendo lo studio della logica, del pensiero formale. Purtroppo nella scuola è ancora prevalente l’attenzione alla speculazione filosofica e minore quella verso il pensiero algoritmico, che invece diventa rilevante nell’era tecnologica in cui ci troviamo. Da parte nostra, quello che stiamo facendo adesso è la costituzione di un osservatorio permanente (chiamato Pandoors) per monitorare le dinamiche sui social al fine di dare strumenti quantitativi ai giornalisti e alle istituzioni per capire cosa è polarizzante dentro la rete. Lo scopo non è quello di censurare ma di permettere di smussare le polarizzazioni. In questo progetto cerchiamo di convogliare le energie di esperti dai diversi profili, giornalisti e ricercatori. L’obiettivo è mettere la comunicazione al cittadino al centro dell’attenzione. Individuare i temi controversi e analizzare il comportamento degli utenti con metodo scientifico aiuterà senz’altro a progettare una comunicazione più mirata ed efficace.
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