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Ogni cosa è collegata
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Ogni cosa è collegata

| Marta Mieli | Internazionale

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Come l'Internet of Things renderà “intelligenti” 50 miliardi di oggetti grazie allo scambio di informazioni in rete

La produzione di oggetti collegati ad internet ha invaso ormai tutti i settori, non si tratta più solo di smartphone e tablet ma anche di auto, elettrodomestici e più in generale di oggetti presenti nelle nostre case. Entro il 2020 si stima che il cosiddetto Internet of Things (IoT), quell’insieme di sistemi informatici che utilizzano software e sensori per fornire agli oggetti la capacità di “dialogare” fra loro e con gli esseri umani, sarà composto da 50 miliardi di oggetti. Potenzialmente infatti tutti gli oggetti possono acquisire un ruolo attivo nella rete grazie al collegamento, soprattutto wireless.

In Italia, secondo un recente rapporto del Politecnico di Milano, già ci sarebbero ben 6 milioni di oggetti connessi attraverso reti wireless, il 47% dei quali è costituito da smart car. Nel 2013 erano circa 2 milioni le vetture dotate di dispositivi per la localizzazione e la rilevazione dei parametri di guida a scopo assicurativo. Nel 2016 si stima che arriveranno a superare i 7,5 milioni. Per saperne di più ne abbiamo parlato con Alessandro Bassi, consulente sulle tecnologie dell’IoT, nonché uno dei principali esperti italiani nel settore.

Alessandro Bassi Alessandro Bassi
Consulente indipendente - Esperto di Internet of Things
Ex direttore tecnico di IoT-A, progetto-faro dell'UE
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Cosa si intende con IoT?

Non c'è una definizione standard di IoT, si può considerare come un cappello generale che comprende tecnologie eterogenee, il cui comun denominatore è il fatto di avere oggetti qualsiasi interconnessi tra loro che si scambiano informazioni. Queste tecnologie possono essere identificate in alcuni campi principali, ognuno dei quali poi si sviluppa in modo sostanzialmente autonomo, rendendo l'aspetto tecnologico di IoT un sistema in continua evoluzione.

Quali potrebbero essere i principali cambiamenti generati da questo tipo di tecnologia? Quali i benefici?

I benefici spaziano dai piccoli vantaggi pratici della domotica a applicazioni dall'impatto enorme

I benefici di questo insieme di tecnologie sono molto vari. Si va dai piccoli vantaggi pratici resi possibili dalla domotica (l’introduzione di internet nel controllo e funzionamento della abitazioni n.d.r.) ad applicazioni dall'impatto potenziale enorme. Ad esempio, nel campo della medicina sarà possibile utilizzare questa tecnologia per il monitoraggio non invasivo delle condizioni del paziente attraverso la temperatura corporea, la sudorazione, etc. Un altro campo d’applicazione è la sicurezza sul lavoro, attraverso sensori in grado di controllare i movimenti effettuati in fabbrica dagli operai per verificarne la correttezza e così prevedere e prevenire il rischio di incidenti. Il risparmio energetico è anche considerato un'applicazione chiave dell'IoT, anche se a mio avviso è un settore molto delicato per i potenziali problemi di sicurezza e privacy che pone; un hacker infatti potrebbe ad esempio dedurre se mi trovo in casa oppure no attraverso i miei dati di consumo energetico e usare queste informazioni a fini illeciti. Come si vede le applicazioni sono potenzialmente molto varie, e quelle ad oggi più promettenti sono trasporti, domotica, sicurezza industriale e smart city (intere aree urbane ad alta tecnologia basate su Internet n.d.r.).

L'ESPERTO

Alessandro Bassi è attualmente uno dei massimi esperti in Internet of Things a livello internazionale. É stato uno dei membri dell’IoT Expert Group, nominato dalla Commissione Europea con l'obiettivo di sviluppare e diffondere IoT nell'ambito dell'Agenda Digitale. Oggi, attraverso la Alessandro Bassi Consulting, offre consulenze tecniche e aziendali per massimizzare gli investimenti nel settore attraverso soluzioni ICT avanzate.

Quali sono le principali iniziative in corso a livello internazionale? E in Italia?

A livello europeo, nel Settimo Programma Quadro ci sono stati diversi progetti di ricerca. Io stesso sono stato il coordinatore tecnico di una delle iniziative più vaste, il progetto bandiera IoT-A (Internet of Things Architecture) che si è occupato, in un certo senso, di porre delle basi per l’IoT. A livello mondiale si stanno inoltre formando diversi consorzi, con l'obiettivo di standardizzare le interfacce e promuovere il settore. Nel panorama italiano, sono numerose le aziende che si stanno occupando di questo settore, dalle grandi come Reply, Eurotech, STMicroelectronics, che sono in grado di affrontare il problema a tutto tondo, alle realtà più piccole, ad esempio piccole e medie imprese nel Lazio, in Toscana e Veneto, focalizzate su specifiche applicazioni e servizi.

Può dirci qualcosa in più di IoT-A?

IoT-A è stato finanziato dalla Commissione Europea con quasi 12 milioni di euro con l'obiettivo di creare un modello architettonico di riferimento per favorire l’interoperabilità dell’IoT attraverso linee guida per la progettazione tecnica dei suoi protocolli, interfacce e algoritmi. Abbiamo investigato sia l'aspetto “verticale” di ideazione, design e messa in produzione di un servizio, sia quello “orizzontale” dell'interoperabilità tra le varie tecnologie e servizi che già esistevano. Siamo ben lontani dall'aver esaurito la questione e quindi è più che probabile che in Horizon 2020 ci sarà un seguito di queste attività. Oltre all'aspetto tecnologico, non trascurabile è quello della sostenibilità, che passa per la realizzazione di business model che rendano appetibili soluzioni tecnologiche già oggi possibili anche dal punto di vista dell'investimento. IoT ha bisogno di infrastrutture per funzionare, ma le infrastrutture non si possono realizzare per una singola applicazione perché nessuno sarebbe disposto a sopportarne l’intero investimento. Pertanto è necessario elaborare modelli sostenibili che prevedano la condivisione e il riuso di infrastrutture esistenti minimizzando i costi del singolo servizio.

In questo scenario, come si colloca la comunità della ricerca?

La comunità della ricerca è in grado di dare un contributo sostanziale allo sviluppo del settore, che non è composto solo di aziende, ma anche da molte università e centri di ricerca. Ci sono numerosi esempi già operativi, molti dei quali a cavallo tra la ricerca pura e la protezione civile o i servizi alla cittadinanza. Un esempio a livello mondiale è l'ingente investimento che il Giappone sta facendo su reti di sensori tipo IoT a partire dal 2011, quando con il terribile tsunami che ha colpito il Paese si è capito che solamente reti molto estese di questo tipo possono supportare le decisioni, monitorare situazioni critiche e aiutare a salvare vite nelle circostanze di una catastrofe di quelle dimensioni.

Quanto ha pesato l’avvento d IPv6?

IPv6 è una delle tecnologie abilitanti dell'IoT

Senz’altro IPv6 e la grande disponibilità di indirizzi IP pubblici che ne deriva, rappresenta una delle tecnologie abilitanti dell'IoT; tuttavia spesso gli vengono attribuiti dei poteri pressoché taumaturgici. Benché non manchi chi crede che tutte le applicazioni IoT dovrebbero andare su IP, alcune classi di applicazioni sono perlomeno problematiche da questo punto di vista. Si tratta delle così dette applicazioni stateless, cioè che non hanno uno stato preciso e in cui ogni tanto l'oggetto si “risveglia” e comunica qualcosa, per poi ritornare ad uno stato dormiente. In questo caso IP non è il protocollo più adatto perché non c'è un modo “coerente” di comunicazione con l'oggetto. Altro campo problematico è quello delle applicazioni “critical”, che devono fornire garanzie precise, ben maggiori di un semplice best effort. Tutte le altre classi di applicazioni però andranno presumibilmente su IPv6, prendendo per l'applicazione vera e propria 64 dei 128 bit a disposizione nel nuovo indirizzo e lasciando il resto per informazioni generiche, come ad esempio il luogo dove ci si collega. Un'altra confusione tipica è quella secondo la quale IPv6, avendo un protocollo interno di sicurezza, risolverebbe con ciò tutti i problemi di sicurezza e privacy inerenti all'IoT. È vero che dei passi avanti si sono fatti rispetto a IPv4, che non aveva alcun tipo di sicurezza intrinseca, ma se andiamo a vedere cosa è stato fatto in concreto, scopriamo che la RFC (Request For Comments, cioè gli standard Internet IETF n.d.r.) originaria su questo tema risale al '98, complice la lenta e travagliata diffusione di IPv6 soprattutto tra gli operatori. All'epoca della sua concezione, forse IPv6 era “troppo avanti”, e questo paradossalmente ha rallentato la migrazione, che si presentava complicata ed evitabile nel breve periodo.

Quali sono questi rischi di sicurezza?

La sicurezza è senz'altro uno degli aspetti critici dell'IoT. Il grosso problema degli oggetti comunicanti è infatti la scarsa capacità di calcolo, memoria ed energia. Ciò rende impossibile un criptaggio efficace che impedirebbe la facile identificazione dei codici di accesso a nostra insaputa. Autenticazione e autorizzazione diventano un punto centrale, anche perché permettono di utilizzare uno stesso device per più applicazioni diverse e da parte di soggetti diversi, a patto di avere un sistema di identità digitale sufficientemente strutturato. Pensiamo ad esempio ad un tessuto intelligente: può essere utilizzato per applicazioni mediche (ad esempio per monitorare il mio stato di salute in base alla acidità del sudore o alla frequenza del battito cardiaco) ma anche più banalmente per regolare in modo automatico il condizionamento della mia stanza o dell'auto in modo che la temperatura mantenuta corrisponda ad un livello di confort. Ovviamente non si vorranno fornire gli stessi dettagli per entrambe le applicazioni. Di qui l'importanza di poter distinguere chi (o cosa) intende accedere a un certo dato e che permessi abbia. Ciò sarà possibile solo attraverso strumenti sufficientemente sofisticati in grado di gestire tale complessità. Insomma, non basta riempire le città di sensori per renderle “intelligenti”, ci vorrà pieno controllo dei dati per poter gestire questi sistemi.

William MitchellLa citazione

“Le nostre città si stanno trasformando velocemente in ecosistemi artificiali composti da organismi digitali interdipendenti ed interconnessi” scriveva il visionario fondatore del “MediaLab” del MIT William Mitchell nel lontano 1998

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